Il ricordo più bello del pranzo della domenica è quello di quando mia sorella ed io, bambinette di città, andavamo a trovare i nonni in campagna la domenica. Partivamo presto da Roma per approfittare di una giornata che pregustavamo ricca di emozioni e sapori. I nonni, sempre svegli al canto del gallo, anche loro si preparavano, con gran fermento, nostro arrivo. Nonna Nannina era dolce e accogliente. Il suo viso era piccolo e delicato come quello di una Madonna e il suo corpo era morbido e armonioso, come un dipinto di Botero. Nonno Mario aveva la stazza di un rubicondo Babbo Natale e il suo viso era magnifico, con profondi occhi quasi turchesi e capelli a spazzola bianchi, brillanti e perfetti.

All’alba nonna faceva la pasta fatta in casa, con le uova delle sue galline. Le fettuccine le tagliava a mano, su un grande tavolo di legno cosparso di farina. Al nostro arrivo trovavamo le fettuccine ancora lì, lunghe come crine di cavallo, ad asciugare.Poi si occupava del pollo arrosto, ovviamente pollo al quale aveva tirato il collo e aveva spennato, piuma dopo piuma, con le sue manine, il giorno prima. Le patate fritte le cuoceva direttamente nel camino scoppiettante, in un pentolone nero.

Nonno Mario aveva anche lui il suo bel da fare. Era solito cercare la fiaschetta più adatta per presentare il suo vino genuino. Il colore del vino era rosso rubino e la fiaschetta era sempre cicciona e troneggiava al centro della tavola. Altro suo compito imprescindibile era tagliare il pane casareccio, con il coltello a scatto che teneva sempre nella tasca destra dei pantaloni. Quest’operazione, a prima vista semplice, lui la assolveva con devozione e sacralità. La pagnotta era enorme, dunque prima andava tagliata lungo la metà del suo diametro. Le fette erano perfette nel loro spessore, per questo tagliava lentamente e in silenzio. Il profumo di pane era inebriante e noi ne rubavamo sempre un pezzettino, prima di andare a tavola. Quando l’operazione “taglio del pane” era terminata, riponeva con cura la metà intonsa in un panno di cotone che sapeva di fresco. L’ultima sua incombenza era di scegliere la frutta migliore per noi. Le cassette di frutta si trovavano in una stanza fredda. Maneggiava la frutta prescelta con grande cura e ci mostrava orgoglioso dove gli uccellini avevano eventualmente posato il loro becco, per assaggiare un pezzettino. Questo era un indice di pregio e non l’opposto, ci teneva a ribadire.

Il menù per noi era: fettuccine al sugo (tanto sugo) basilico e parmigiano; pollo ruspante (a noi spettava la coscia) e patatine fritte al camino; frutta dell’orto e le “pastarelle” le portavamo noi dalla città. Avevamo il permesso di mangiare a volontà (il pollo anche con le mani), fare il bis e la “scarpetta”. Dai nonni regnava l’abbondanza ed erano molto generosi in tutto.

A fine pasto c’era un altro rito che era svolto, sempre lo stesso modo: il caffè….

Ero affascinata da tutto quello che ruotava intorno alla sua preparazione, forse perché a noi non era permesso berlo, era per i grandi. Il profumo era forte e inebriante e invadeva prepotente la sala da pranzo. Nonna prendeva i bicchierini di vetro dentro la vetrinetta. “La vetrinetta” era un altro oggetto di mistero e desiderio. Aveva cinque ripiani, era incassata nel muro e aveva due ante di vetro dentro cornici di legno e si chiudeva con due pomelli. Nei ripiani erano ammassati tantissimi bicchierini, tazzine, piattini e oggetti in vetro e in porcellana. Non erano stipati in disordine, ma in un ordine sparso che solo lei conosceva e al quale aveva accesso. Noi guardavamo incuriosite, non potevamo toccare, perché avremmo potuto rompere lo zoo di cristallo. Quindi è lì che ho avuto la prima esperienza di quello che al bar avrei sentito anni dopo chiamare: “caffè al vetro”.

Prima di partire c’era la visita all’orto. Primo pit stop: il pollaio con l’allegra raccolta di uova calde da portare a Roma. Nel pollaio mia sorella dava il meglio di se, sguazzando in tutto ciò di più puzzolente potesse incontrare. Io osservavo, stando attenta a non toccare nulla e a non sporcarmi. Nonno ci mostrava le fioriture del momento e raccoglievamo qualche fiore, che cresceva in modo spontaneo qua e là. Nella loro campagna nulla aveva un ordine e anche i fiori erano lasciati crescere dove nascevano, per caso.

Questa sensazione di ordine scomposto impregnava tutto intorno a noi. Non c’era mai qualcosa con un’identità precisa, tutto sembrava casuale. “Scomposto” e “casuale”: era proprio qui la meraviglia. L’apparente disordine del tutto, racchiudeva proprio la sua perfezione.

Al momento dei saluti una pesante coltre di tristezza ci mordeva il petto. I nonni cambiavano espressione e i loro occhi erano lucidi. Dicevano due frasi, sempre le stesse: “Andate piano in macchina” e “Quando tornate?”.

Sulla porta ci consegnano i regali per noi: un paio di bamboline fatte a maglia, oppure delle babbucce colorate, sempre fatte a maglia, ma con tanti fili di lana diversi e spesso una differente dall’altra.L’intensità di questi “pranzi della domenica” è svanita molto presto. I nonni sono morti, prima ancora che potessimo farci un ragionamento da adolescenti.

Non siamo più tornati in quella casa e non ci è rimasto neanche un solo oggetto per ricordo, neanche un bicchierino della vetrinetta.Resta solo tristezza e senso di vuoto per dei momenti mai più ritrovati, e mai più vissuti con quell’intensità piena. La domenica a pranzo ho sempre un senso di vuoto, di famiglia che non c’è, di unione che manca e di solitudine. Talvolta salterei su un treno solo per andare a pranzo da mia madre, la domenica. Ma ora siamo adulti e non ci concediamo tanti voli pindarici.

Per questo motivo amo andare a pranzo fuori la domenica. Va bene anche la plastica e le luci al neon di un centro commerciale. Mi è capitato in alcuni di questi “pranzi riparatori” di sentirmi vagamente felice. Merito sicuramente dei commensali e di questo, per fortuna, nuovo modo di intendere la famiglia. La famiglia allargata… “allargata” a chi si vuole sentire in famiglia!…